“Se io non sono per me, chi è per me? E, se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?”
Alcune semplici domande profondamente lapidarie che costituiscono la base dell’interrogazione circa il determinismo del proprio ruolo nella propria vita e che tendono nello scopo alla conservazione di se stessi in piena armonia con il mondo.
Vi siete mai chiesti chi è il playmaker? E perché nasce tale? Da cosa è mossa la sua esigenza di dare forma al gioco mediante l’applicazione di modelli pre-ordinati di situazioni che riconosce?
E’ una figura polivalente che oscilla tra le possibili caratterizzazioni del gioco adattandosi alla dinamica sempre con il fine di restituire un gioco legato nelle parti dai diversi interpreti che lo compongono. E’ un giocatore che scivola costantemente lungo la linea che divide la prospettiva individuale del gioco, quella del realizzatore che non può non assecondare il raziocinio inconscio dell’istinto, da quella globale che ne evidenzia invece le correlazioni tra gli attributi degli interpreti che lo sviluppano.
Questa duplice natura genera un’apparente assenza di caratterizzazione del giocatore che non da prova di gesti tecnici dallo scopo unidirezionale e che media, soppesando gli equilibri del meccanismo, la scelta su come, quando e dove incarnare gli attributi mancanti. La sua natura ha uno scopo integrativo rispetto alle scelte meno filtrate e più istintive dei propri compagni.
Se io non sono per me, chi è per me? Questa prima domanda apre lo spazio circa la discussione su come un playmaker diventi tale. L’esigenza di una trama che si inserisce nello sviluppo del gioco deve essere la rottura di una simmetria nelle sue intenzioni da giocatore. Questa spinta a voler canalizzare le scelte del gioco dei propri compagni senza reprimerne l’essenza deve essere il paradigma di un atleta che pone la propria realizzazione al di fuori della connessione “lavoro-obbiettivo” e che vede il proprio ruolo inserito in quella danza proibitiva che la connessione di tutti i fattori in ballo determina. Qui si aprono i presupposti per la seconda domanda.
Se io sono solo per me stesso, cosa sono? E’ evidente l’esigenza di ergersi a qualcosa che sia superiore rispetto la prospettiva che offre la propria individualità. La retorica della sua narrazione deve intravedere nella realizzazione della collettività il fine ultimo dell’insieme delle azioni che opera per costruirsi. Comprende l’inutilità di un gesto tecnico decontestualizzato e costruisce per questo dinamiche che hanno lo scopo di aumentare la potenzialità della costruzione dell’azione. Emerge l’esigenza di restituire un prospetto migliore di quello ricevuto, intervenendo in modo sistemico nell’insieme degli aspetti che contribuiscono a migliorare la distribuzione statistica delle giocate portate a compimento.
E se non ora, quando? Quest’opera di filtraggio degli aspetti tossici del gioco non potrebbe essere interpretata se alla base non ci fosse un’innata istintualità nella realizzazione del gioco. L’insieme degli aspetti che contribuisce a costruire la dimensione pensante di questo giocatore è scandita dalla sua capacità di inserirsi nella trama come individuo. La realizzazione del gioco non sarebbe possibile senza una grezza realizzazione tecnica utile ad indurre il gioco per come è stato pensato. La duplice realtà di questo giocatore deve essere una dissociazione finalizzata a ritrovarsi comunque nella sua individualità, orientata a canalizzare il gioco e non ad avere l’arroganza di volerlo modificare pensando di poter agire anche per chi non può impersonificare. L’uno è e vale uno. E’ ciò che restituisce che preserva la correlazione della azioni che sono già state compiute e che influenzerà ciò che può essere compiuto.
Gioco dunque sono.
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